26 luglio, 2009 | Di Barbara Martusciello
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CIAC Centro Internazionale per l’Arte Contemporanea, approfondimenti, proponiamo


CIAC di Genazzano: Gioacchino Pontrelli, Gian Maria Tosatti, Students of Rhode Island School of Design di Bruna Esposito e intervista a Claudio Libero Pisano | di Barbara Martusciello


CIAC è un acronimo di Centro Internazionale d’Arte Contemporanea. Si tratta di uno spazio museale a pochi chilometri dalla Capitale, riattivato da non molto tempo e già distintosi per serietà e autonomia nelle proposte culturali. “Sì, infatti, si mira a dialogare ad ogni livello la cultura: sia quella visiva, con l’arte e le sue diverse declinazioni, sia altre forme culturali come il Teatro, la poesia, la Letteratura”. Questo è quanto afferma il suo Direttore, Claudio Libero Pisano, che sino ad oggi ha mantenuto la promessa ed è riuscito a tener fede alle aspettative del mondo dell’Arte con caparbietà. “Non facile, con la cronica mancanza di budget che la cultura ha in Italia e che, in particolare, pesa sul CIAC”.

La struttura è una delle più belle in Italia in fatto di spazi espositivi museali dato che è allocata nel Castello Colonna: di proprietà della nobile famiglia sino al 1979, è da allora in mano del Comune di Genazzano, piccolo e caratteristico paese edificato su di uno stretto sperone di tufo vulcanico e a circa 388 metri di altezza; si trova al confine tra la provincia di Frosinone e quella di Roma da cui dista poco più di cinquanta di chilometri. Oltre al Castello, Genazzano ha interessanti monumenti e luoghi d’arte come il santuario Madonna del Buon Consiglio, la Chiesa di S. Croce, il Ninfeo di D. Bramante e la casa natale ad Ottone Colonna che dal suo Feudo regnò sul popolo cattolico con il nome di Papa Martino V. Data la sua bellezza tipica, il borgo è stato usato per location Tv e set cinematografici: qui, nel 1969, fu girato un film celebre, di Luigi Filippo D’Amico, Il presidente del Borgorosso Football Club (1970) -che nella finzione si trovava in Emilia Romagna- con un Alberto Sordi protagonista di una delle celebri scene della cinematografia non solo italiana ma questa è un’altra storia.

Quella del CIAC lo vedecome luogo espositivo con una storia iniziata nel novembre del 1979 con una rilevante collettiva curata da Achille Bonito Oliva: Stanze, con artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, per tre mesi accentrò l’attenzione del mondo dell’Arte su questo sontuoso spazio-mostre e sul piccolo paese laziale ripetendo poi, con altre iniziative del curatore, il miracolo. Poi, purtroppo, sono seguiti anni diincuria; finalmente, però, “Fondi del Giubileo hanno permesso un grande restauro dell’edificio” rendendo possibile rinnovare l’interesse per la struttura da parte di alcuni storici e critici tra i quali “Simonetta Lux”, precisa Libero Pisano. Finalmente, “dalla fine degli anni Novanta, e con la definizione di CIAC -appunto, Centro Internazionale per l’Arte Contemporanea- si è sancita la panoramica decisa sulla produzione dell’arte più attuale e sperimentale”. Con il contributo fondamentale di un Direttore giovane (classe 1965) e coraggioso che, tra parentesi, proviene da un diverso campo professionale: il Restauro.

Come si coniuga tale passaggio? “Sì, è vero che sono restauratore (specializzato sui marmi e sui gessi antichi, ha lavorato al Museo archeologico di Salonicco, all’arco di Costantino, a Villa Medici a Roma, N.d.R.), ma l’arte contemporanea è stato sempre un mio interesse, un amore che si è concentrato ancor meglio prima quando sono entrato nello Studio di un artista (Emilio Greco, in quanto restauratore della Collezione su mandato degli eredi, n. d. r.), a tu per tu con le opere e il suo mondo; poi mi sono impegnato in Container, una galleria che a Roma ha lavorato sulla promozione di artisti emergenti”.

Potremmo definire oggi il lavoro di restauratore, per Libero Pisano, travailler alimentare, prendendo in prestito un modo di dire tipicamente francese “Le due professioni e passioni si sono sovrapposte, l’una si è arricchita tramite l’altra”.

A quanto so, anche perché decentrati e giovani, è difficile il sostentamento economico “Molto. Fondi europei, sponsor privati: in questo senso stiamo lavorando. Inoltre, stiamo attivando sinergie con Università, Accademie, Centri Culturali e istituzioni estere in Italia”.

Su quale ricerca artistica ti sei concentrato per dare identità al CIAC? “Il CIAC è qualcosa di vitale che vogliamo pluridisciplinare, dando molto peso anche al Teatro, per esempio. Questo sottolinea che ci interessano il dialogo e l’incontro: anche tra scelte progettuali differenti. Promuovendo il vero confronto, la reale collaborazione con gli artisti e prediligendo, quando possibile, progetti pensati e realizzati per questo luogo”.

Come Falso Movimento, la mostra che alla fine del 2007 ha inaugurato la nuova vita del CIAC: una collettiva che derivava il titolo ma anche il concept dal film di Wim Weneder. O come la bella appunti Memoria/Memorie che, cita la presentazione, “si inserisce all’interno di un progetto dalla vocazione interdisciplinare sul tema della memoria”, nato da Il ballo all’Opera, un testo visionario e simbolico del 1936 del poeta ebreo polacco Julian Tuwim, pubblicato dalla giovane e propositiva Casa Editrice Livello4 che ha collaborato all’iniziativa; il giorno dell’inaugurazione, Anna Bonaiuto ha letto il testo con il supporto delle musiche inedite del gruppo musicale Out of Tune. Conferma di positiva relazione tra le arti: come da programma.

Appunto. Programma per il futuro? “Proseguire facendo luce su una generazione di artisti che si é formata a Roma negli anni Novanta che, al di là dei diversi esiti di carriera, ha avutouna difficile visibilità; si tratta di artisti anche molto presenti in grandi mostre collettive (anche importanti) ma ai quali, diversamente, la critica o le istituzioni museali hanno riservato poca attenzione, almeno nel complesso del loro lavoro; e sono autori che hanno ormai quasi venti anni di produzione alle spalle… Insomma: vorrei fare una serie di antologiche senza la pretesa di fare panoramiche di fine carriera. Più che celebrazioni, quindi,intenderei fare il punto sulle loro produzioni degli ultimi 10-15 anni. E dare uno spaccato del loro lavoro fino ad oggi”.

Esempio perfetto: la proposta dell’ampia Personale di Gioacchino Pontrelli, che appartiene in pieno a quella generazione. all’interno di un criterio attento “a fare il punto” si colloca anche il site specific del più giovane Gian Maria Tosatti (Hotel de la Lune). A questi due progetti si affianca anche una mostra più emergente, quella delle installazioni degli studenti della Rhode Island School of Design a corollario del workshop tenuto dall’artista Bruna Esposito, anch’essa di quella generazione sulla quale Claudio Libero e il CIAC intendono far maggiore luce…Questi lavori rivelano lo studio profondo fatto da questi autori sul Castello Colonna. L’agire di Dorion Barill, Marlene Frontera e Grant Conboy, Michael Aitken, Benjamin Persky, Emily Taibleson e Liam Van Vlee palesa in qualche misuraun doppio omaggio: al luogo, con la sua storia e la sua architettura; e all’arte: anche dell’insegnante, delle cui lezioni gli studenti sembrano aver fatto tesoro.

La mostra più recente al CIAC, e rilevante, per ampiezza e densità della proposta, è quella di Gioacchino Pontrelli, presente con un’esposizionealquanto esaustiva e davvero ben calibrata.

Classe 1966, salernitano di nascita ma romano d’adozione, Pontrelli si è formato in anni a Roma piuttosto fertili per la giovane sperimentazione. Ha sempre portato avanti la pittura e una figurazione che, via via, si è attestata su direzioni del tutto originali e impreviste.

Colore, forme e strutture costruiscono i suoi quadri dai quali l’artista toglie ogni eccesso per lasciare spazio ad una grammatica visiva essenziale ma anche imponente nelle dimensioni e con stratificazioni di sottotesti da scoprire sotto la prima “pelle” della pittura: dentro c’è l’epica del quotidiano.

Nei suoi lavori recenti, ben allestiti in mostra, Pontrelli sancisce una ricerca che restituisce interni di case in assenza di chi le abita. Li presenta aperti, come una scatola in verticale, scoperchiata, simile a un teatrino. Di queste stanze si comprende l’ampiezza,se ne percepisce persino l’aria, eppure si avverte qualcosa di claustrofobico: dato, forse, dal loro essere inabissate in una dimensione senza tempo e in una rarefazione dello spazio, silente.

Sono comunque dei luoghi, quindi prevedono di essere (stati?) agiti e sono caratterizzati; ricchi o, quantomeno, raffinati, sono arredati con un eccellente gusto per l’estetica e per il progetto. Contengono, infatti, alcuni oggetti-chiave della quotidianità delle persone -divani, sedie, un letto, una poltrona, delle tende, qualche mobile, un vaso, una lampada- ma nella versione cool, seppure stropicciata, vissuta. Pontrelli inserisce questi totem del design e dello stile di vita con un chiaro rimando al linguaggio fotografico e alla tipica comunicazione magazine-style che dimostra di conoscere bene. Questi soggetti sono all’interno di strutturazioni complesse che esibiscono l’organizzazione della composizione dove ogni cosa non potrebbe essere posizionata diversamente.

La resa finale è di grande impatto emotivo e di una bellezza che definirei persino ardente: grandi masse cromatiche convivono con colature, sciabolate di colore, segni più netti e si mixano con aree apparentemente non finite, velature, immagini definitee stilemi decorativi. La figurazione, incredibilmente, si piega a un palese richiamo all’astrazione. Nulla è mai concesso né alla narrazione né a una pittura da buona maniera oggi tanto amata da molto pubblico e da una certa critica. Tutto è linguisticamente significante. Le allusioni, i rimandi sono stratificati l’uno sull’altro e da questa complessità affiorano interiorità, solitudine, necessità di unplugged o, per usare un concetto a me caro, invito a “remove background noise”.

Il rigore paga ma non è mai scelta indolore; anche questo sembra balenare dalletele lucide e corpose di Pontrelli:“Sento una maggiore responsabilità”, disse l’artista in una nostra precedente conversazione, ma “se si fa il massimo che si può, le cose accadono, per fortuna”.

Fortuna? Forse aiutata dall’essere la persona giusta al momento giusto e con un lavoro giusto. In un posto che è magnifica cornice alle sue opere- il CIAC, appunto-, salone dopo salone, che accompagna la loro perfetta visione.

Il castello, accogliendo l’arte contemporanea, permette un intrigante cortocircuito tra passato e presente, tra antico e segno più nuovo: una volta di più è la conferma di quanto niente nasca dal nulla e quanto la storia e la memoria siano terreno necessario per far germogliare l’attuale. Un po’ quello che viene spontaneo pensare di fronte al site specific di Gian Maria Tosatti.

In questa nuova opera Tosatti si ripropone con il proprio nome d’origine e non più dietro o dentro la titolazione-logo Hotel de la Lune con la quale ha firmato moltissimi progetti visuali precedenti.

Nato a Roma nel 1980, Tosatti è molto rigoroso nella progettazione e nella pratica che, anche per questo, non prevede una vasta proliferazione di lavori.

L’artista ha una storia formativa e professionale con interessanti declinazioni nel teatro. Circa sette anni fa ha messo radici nell’esperienza al Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera. Come Hotel de la Lune – e la collaborazione di Elisabetta Mancini - ha dato vita a eventi performativi e installativi che, forti del linguaggio teatrale più sperimentale, si orientano verso l’ambito dell’Arte visiva sino a posizionarcisi in maniera netta e definitiva dal 2005. A tal proposito, l’artista, in un nostro precedente incontro, chiarì questo passaggio, definendolo “il momento giusto per rompere il linguaggio più specificamente teatrale lasciando che diventasse più libero e radicale. Il risultato è stato Devozioni, il primo ciclo di opere visive di Hôtel de la Lune“: non opere a parete né pura installazione ma un evento omnicomprensivo in cui, quando è stata presente, la performance ha avuto parte centrale e dove, soprattutto, lo spazio di volta in volta individuato per allestire il lavoro è stato non solo fondamentale ma ha sostanziato proprio tale produzione in quanto tale.

Come in questa nuova opera al CIAC che adopera, come materiale compositivo e insieme significante anche le muffe, le scrostature sul muro, alcuni scarti, oggetti trovati nella stanza-cella scelta per ambientare Le considerazioni sugli intenti della mia prima comunione restano lettera morta- spazio #01.

E’ posizionata nell’ampio e bel cortile del Centro, dov’è stesa, in permanenza, come una nera vedetta, l’opera realizzata dalle sapienti mani di Elena Nonnis. Proprio sotto questa sorta di rete fatta da tanti spaghi di seta pazientemente annodati, a ricordare pratiche zen ma anche l’escamotage-rituale di Penelope, è nascosto l’intervento di Tosatti. Egli, infatti,ha celato la porta di questa sorta di wunderkammern con alti rami di verde flora, destinata a seccare, a deperire e a trasformarsi. Se non la cerchi, l’opera non si rivela. Sbirciando tra il muro di fascine ecco aprirsi una messa in scena di oggetti e reperti inquietante e poetica. Risente, come generalmente tutta la sperimentazione di questo interessante artista, della lezione del Teatro Povero di Grotowski la cui traiettoria-guida è sempre in qualche modo presente nella sua ricerca visiva. Vi è essenzialità, una certa necessità di rapporto profondo e viscerale con il pubblico, la volontà di attraversamento della semplice “rappresentazione“;e ci sono una caratterizzazione dell’opera come esperienza e la concretizzazione di una forma di sacralità come dispositivo per dar vita ad una reale -non solo intellettuale- trasformazione. In che cosa? Perché? Queste le domande alle quali Tosatti non dà risposte, perché fedele alla convinzione che l’arte non dia soluzioni e non sia precetto ma apra, semmai, altre possibilità della visione e differenti riverberi speculativi: sulla duplice natura umana, quella trascendente e quella terrestre. Pertanto, come ho avuto già modo di scrivere, gli interventi di Tosatti -e questa nuova site specific lo conferma-, coinvolgono lo spettatore in un viaggio dentro se stesso ma lo proiettano subito verso qualcosa di più complesso, collettivo e catartico che possa finalmente fare i conti con pendenze rimaste in sospeso e insolute: che, ci dice, “pulisca una ferita rimasta aperta” come lo possono essere le guerre, gli stermini, la falsità della storia, i ritorni negati e le rese senza vittoria, la prevaricazione del potere religioso e politico, la mistificazione. Pertanto, Tosatti lavora sugli archetipi e sulle metafore perché sono evidenze dell’immaginario collettivo, qualcosa di conosciuto e riconosciuto, quindi potenzialmente compreso e condiviso a più ampio livello.

Questo coacervo poetico non è mai narrativo né didascalico ma si mantiene mirabilmente sul filo di un codice specifico, quello dell’arte, con il proprio significato e il proprio linguaggio. Ineludibile.

CIAC – Centro Internazionale per l’Arte Contemporanea, Piazza San Nicola, 4 – 00030 Genazzano (RM); tel. +39 069579010; fax +39 0687450492; info@castello-colonna.it; www.castello-colonna.it.